L’Italia vista dall’America: intervista a Faith Willinger
Americana di nascita, ma come preferisce definirsi “born-again italian”, di rinascita italiana. Faith Willinger è la giornalista e scrittrice che in più di 40 anni ha visitato in lungo e in largo la nostra Penisola. Da sempre punto di riferimento di numerose riviste di settore internazionali come Travel & Leisure, The New York Times ed è stata editorialista per Epicourious, La Cucina italiana. Faith Willinger è il punto di riferimento per i produttori della celebre serie Netflix “Chef’s Table”. Considerata come una delle ambasciatrici più autorevoli della cultura e bellezza gastronomica italiana in America abbiamo voluto rivolgerle alcune domande in occasione della partecipazione di ALMA al Summer Fancy Food di New York.
Qual è stato il piatto che, una volta assaggiato, ti ha fatto mettere radici, convincendoti e coinvolgendoti così tanto da farti restare in Italia?
Pane e olio! La conoscenza che avevo di questo piatto 50 anni fa, era molto “alterata”. Fino ad allora il pane che avevo sempre visto era quello in cassetta, mentre come olio conoscevo solo quello in lattina. Arrivai in Italia nel mese di febbraio, quindi il periodo dell’olio nuovo, quando mi venne servito rimasi colpita dal ventaglio aromatico che sprigionava. Da allora ho iniziato a seguito la strada dell’olio, perché penso sia un miracolo della natura.
Il tuo “born again italian” lo hai vissuto quando hai raggiunto stabilmente l’Italia, pensi che anche per gli americani possa esserci una rinascita nei confronti della cucina italiana?
Quando ho iniziato a girare l’Italia, sono stata una pioniera, nessuno avrebbe visitato ogni singolo comune per scovare nuove realtà. Oggi sono felice che ci sia una maggiore consapevolezza del prodotto italiano e maggiore curiosità di venirlo a provare direttamente in Italia. Ci sono tanti chef americani, o semplici appassionati del buon cibo che si spingono oltre, venendo in Italia a seguire periodi di stage in ristoranti o cucine casalinghe, per gustare la vera cucina italiana. Una volta conquistati tornano in America e fungono da cassa di risonanza della qualità. Di ambasciatori della gastronomia italiana in America ce ne sono tanti, basta solo pensare che in ogni ristorante c’è sempre un piatto di pasta sul menu. Quindi in America l’idea della cucina italiana ha sicuramente attecchito, ora spetta ai nuovi viaggiatori fare un “born again italian” e far scoprire al popolo americano che di oli italiani ce ne sono tantissimi tipi, come di pasta, pane e qualsiasi altro tipo di ingrediente.
Quanto è complesso riuscire a comprendere, per il popolo statunitense, le cucine regionali e locali che costituiscono la gastronomia italiana? C’è stato qualcuno che, come Pellegrino Artusi o Anna Gosetti della Salda in Italia, ha raccontato tramite un manuale le caratteristiche della cucina italiana agli americani?
Sicuramente Marcella Hazan. In Italia è poco conosciuta, ma in America è riuscita a emergere con la sua cucina emiliana. Tra le sue ricette, quella che mi ha colpito e mi ha fatto notare la differenza del mio punto di vista è la sua Tomato Sauce. Una preparazione molto semplice, composta da cipolla, pomodoro e burro. Oltrepassando l’impiego del burro come lipide, che mi ha sempre lasciato perplessa, ciò che mi ha stupito è l’utilizzo della cipolla tagliata semplicemente a metà e adoperata non come ingrediente, ma come insaporitore poiché viene tolta quando la salsa è pronta. Tale tipo di impiego, pur essendo una ricetta semplice, esprime un tipo di ricchezza, molto lontana dal mio concetto di cucina italiana. Dopo tutto il tempo che ho vissuto nelle cucine italiane ho capito che la vera ricchezza della gastronomia italiana è l’impiego umile e vero degli ingredienti, che portano a piatti sublimi. È tutta una questione di cucina italo-americana e cucina italiana in America. La cipolla, il burro come in questa ricetta sono figli di adattamenti, storici e culturali un contesto totalmente nuovo.
Approfondiamo l’argomento, qual è secondo te la differenza tra la cucina Italo-americana e la cucina italiana in America?
La differenza è molto netta, la prima è poco diffusa e si è insidiata principalmente nella East Coast, mentre la cucina italiana in America si è diffusa molto di più e la sua marcia è partita dalla West Coast. Originariamente la cucina italo-americana è stata importata da persone umili, provenienti per lo più dal sud Italia, che si sono nutriti per tutta la loro vita con porzioni ridotte. Quando sono arrivati in America si sono adattati a fare lavori umili, ma molto remunerativi e questa abbondanza ha fatto sì che aumentassero le dimensioni delle porzioni, ma non la qualità degli ingredienti. Da questo aspetto sono nate le montagne di spaghetti o meglio conosciuti come “spaghetti with meatballs” ossia con le “polpettone” al sugo. La cucina italiana in America invece è stata importata dagli italiani provenienti per la maggior parte dal nord Italia, persone che avevano avuto una maggiore disponibilità e che vedevano il pasto oltre che un’occasione di nutrimento anche un momento di convivialità bilanciato anche nella composizione degli ingredienti.
Nell’immaginario collettivo, soprattutto televisivo, grazie agli episodi di “Chef’s Table”, si può notare che gli americani apprezzano davvero tanto la cucina italiana. Secondo te cosa amano realmente dell’italianità?
La creatività. Gli italiani con un semplice ingrediente, pensiamo ad esempio al pollo, sanno imbandire un intero buffet e riutilizzare “gli scarti” come piatto del recupero. La creatività che c’è in ogni comune italiano, nel reinterpretare a modo proprio le preparazioni, aggiungendo ingredienti, modificando cotture e dandogli nuovi nomi, non ha rivali. Ricordo che nei primi anni di soggiorno in Italia incontrai un ristoratore toscano, parlando della sua cucina ingenuamente la definii “cucina toscana”, lui mi apostrofò affermando che la sua cucine era specifica della Val di Bisenzio. Da qui si può capire quanto creatività e storicità per la cucina italiana siano indispensabili. In un continente così vasto come l’America, in cui ci sono più km di terra che storie culinarie da tramandare, è stata accolta la tradizione culinaria di un Paese piccolo come l’Italia, ma al contempo così caleidoscopico.
Il Los Angeles Times identificò il tuo approccio alla cucina italiana con la definizione “un- recipe approch”. Pensi che gli americani possano adottare lo stesso metodo?
Per gli italiani il recipe approch è davvero molto semplice, la prima volta che mi sono confrontata con una ricetta italiana e ho visto come unità di misura “q.b.” mi sono sorte tantissime domande. Per gli americani ogni ingrediente deve essere misurabile, perché manca la conoscenza ma anche quella fiducia gastronomica che ogni italiano sembra dotarsi fin dalla nascita. Gli italiani si affidano al proprio palato, agli insegnamenti gastronomici che hanno ricevuto, anche involontariamente, dalle proprie mamme o nonne. Per il concetto che gli americani hanno della cucina, tutto questo è molto difficile da capire.
Data la diffusione della ristorazione italiana in America, pensi che il tipo di cucina che si diffonderà potrà seguire lo stile del fine dining?
Il mio concetto di fine dining non prevede stoviglie o posate firmate, per me il tipo di fine dining che la cucina italiana dovrebbe seguire in America è lo stile delle trattorie italiane. Luoghi in cui la cucina segue ciò che l’orto offre e non si abbellisce di fronzoli inutili, una cucina vera e ricca di sapori. In America non sarà semplice adottare questo stile, perché molti prodotti mancano. Basti solo pensare che l’olio buono è necessario importarlo dall’Italia e il pane di qualità è arrivato pochi anni fa. Sarà sicuramente complesso trasportare questo concetto di ristorazione in America, ma ci sono delle ottime premesse grazie a tanti cuoco che hanno intrapreso questa inversione di paradigma. Pensiamo al caso di Massimo Bottura. Una persona che, oltre ad essere un grande professionista della ristorazione, ha una sensibilità smisurata al contesto locale in cui opera. Mi riferisco al sostegno offerto ai produttori di Parmigiano Reggiano dopo il terremoto del 2012. Ha contribuito alla vendita delle forme danneggiate dal sisma oltre che a creare un piatto che impiegasse in toto la forma, percorrendo la strada del no food waste. Ancora una volta è tutta una questione di creatività o come dicevano i vostri antenati della Roma Antica: genius loci!